Previdenza complementare: si o no?

Il sistema pubblico delle pensioni con il continuo innalzamento (per nostra fortuna) dell’aspettativa di vita ha costretto nel corso dei decenni i nostri governanti ad apportare continuamente delle variazioni (purtroppo per i pensionati sempre peggiorative) per far si che il sistema pensionistico fosse in  grado di reggersi contabilmente in equilibrio e che non pesasse eccessivamente sui conti dello Stato.

Ci sono stati pertanto nel corso degli ultimi trentanni diversi aggiustamenti da parte dei governi che si sono succeduti ma le riforme strutturali sostanzialmente sono state tre.

La prima del governo Amato del 1992. Fino a quella data la pensione veniva calcolata moltiplicando gli anni di lavoro per il 2%. Con 40 anni di lavoro pertanto si percepiva una pensione pari all’80% dell’ultimo stipendio. Quindi quello che contava era l’ultimo mese di retribuzione e si assisteva in certi Enti a veri e propri sconci di personaggi che venivano promossi il giorno prima di andare in  pensione.

Amato poi elimina la deprecabile e iniqua norma che consentiva agli statali di andare in pensione con 19 anni, 6 mesi e un giorno istituita dal governo Rumor nel 1973, eliminando le cosiddette pensioni baby che ancora oggi pesano sul bilancio dello stato per oltre 7 miliardi l’anno.

Arriviamo poi al Governo Dini (anno 1995) che divide i lavoratori in tre parti. Per chi ha al 31/12/1995  almeno 18 anni di contributi versati la pensione continua ad essere calcolata con il sistema retributivo. Chi al 31/12/1995 avrà meno di 18 anni di contribuzione, avrà il sistema cosiddetto misto (retributivo fino al 1995 e contributivo dopo) e chi comincerà a versare contributi dal 1/1/1996 avrà una pensione calcolata interamente con il sistema contributivo. Più versamenti si effettuano più alto sarà l’assegno di pensione.

Da ultima la cosiddetta e odiatissima legge Fornero del governo Monti che introduce per tutti a decorrere dal 1 gennaio 2012 il sistema contributivo.Viene poi aumenta considerevolmente l’età per poter andare in pensione agganciandola addirittura all’aspettativa di vita per cui sono necessari ormai  67 anni di età per la pensione di vecchiaia e oltre 43 anni di contributi per la pensione anticipata per potere andare finalmente in pensione.

Non mi soffermo sulla cosiddetta quota 100 (38 anni di contribuzione + 62 di età in quanto trattasi di una legge sperimentale con una durata ben definita valida solamente per gli anni 2019-2020-2021) che terminerà i suoi effetti tra poco più di un anno.

Questa breve storia delle leggi sulle pensioni in Italia è necessaria per introdurre un altro tema. Il sistema inventato per stare in equilibrio e per non pesare sui conti dello Stato è fatto in modo che sia molto penalizzante per il lavoratore che lavora sempre più anni, versa più contributi e percepisce sempre meno.

Prendiamo ad esempio un lavoratore che versa 40 anni di contributi. Nel 1992 avrebbe percepito una pensione dell’80% della sua retribuzione mensile, nel 2020 percepisce una pensione di circa il 65/70% dello stipendio e un lavoratore che comincia  a versare i contributi oggi si ritroverà al termine dei versamenti una pensione che a malapena arriverà al 50% di quanto oggi percepisce di stipendio.

Ecco pertanto che il legislatore con il D.Lgs n. 252 del 2005 istituisce la cosiddetta “Previdenza Complementare” ovvero una “seconda gamba” del sistema previdenziale. Il sistema pubblico è la prima gamba di questo sistema, ma per poter percepire un assegno dignitoso alla fine della propria carriera lavorativa bisogna integrare la pensione con dei versamenti volontari.

La previdenza pubblica pertanto erogherà circa il 50% di quanto si percepisce di stipendio, la previdenza complementare può arrivare ad erogare quel 20/25% mancante al fine di avere una pensione dignitosa. Precisiamo che la previdenza complementare non è obbligatoria ma è del tutto evidente che non versando nulla durante la vita lavorativa alla fine si avranno pensioni molto basse. Ovviamente più si versa e per più tempo e più si avrà in futuro. Sembra l’uovo di colombo ma perlomeno in Italia così non è.

Nel nostro paese a differenza dei paesi del nord europa, stenta questo modo di garantirsi parte della pensione. Un modo abbastanza pratico di versare soldi nella previdenza complementare senza incidere sullo stipendio mensile è quello di destinare ad esso il TFR/liquidazione (anche questo istituto esistente in pratica solamente il Italia), ma anche questo per molti è un fatto negativo. Sono ancora ancorati al sistema della cosiddetta liquidazione/TFR che si percepisce al termine della propria carriera lavorativa.

Parlavo recentemente con un consulente finanziario che opera in questo settore. Mi diceva che i giovani appena assunti non pensano assolutamente alla pensione che avranno tra quaranta anni, non si privano di 100/150 euro al mese per qualcosa che è troppo lontano per loro.

Per assurdo, continuava, ho più clienti di 50/55 anni che al limite avendo il sistema misto potrebbero anche fare a  meno della previdenza complementare che giovani che vedono la pensione come un miraggio, forse mai raggiungibile. A loro la scelta, ma personalmente ci penserei seriamente anche a costo di qualche sacrificio se non vogliono un domani essere disarmati ed inermi di fronte a una vita che si allunga (per fortuna) sempre più senza avere adeguati mezzi economici di sostentamento.

 

di Mauro Marino
nato a Peschiera del Garda. Pensionato dal 1 luglio 2020 con quota 100. Per 40 anni all’Agenzia delle Entrate di Trieste. Appassionato di economia e pensioni