Un altro Eden di Paul Harding


a cura di Roberto Fiorini

Paul Harding ha insegnato scrittura creativa a Harvard e all’Università dello Iowa ed è stato batterista in un gruppo rock con cui ha registrato due album e girato l’Europa in tour.
Oggi vive a Georgetown, nel Massachusetts, con la moglie e i figli.
Pubblicato negli Stati Uniti nel 2009 da una casa editrice indipendente, la piccola Bellevue Literary Press, il suo romanzo L’ultimo inverno ha vinto nella sorpresa generale il premio Pulitzer 2010 e ha scalato le classifiche dei bestseller.
Nel nuovo romanzo This Other Eden pubblicato in Italia da Neri Pozza, un reporter, un fotografo, due medici e tre consiglieri locali visitano un’isola isolata da qualche parte lungo la costa del Maine.
Hanno viaggiato lì come parte di un comitato di indagine ufficiale e sono scortati da un insegnante missionario bianco, Matthew Diamond, che vuole insegnare latino e Shakespeare ai residenti “razzialmente” diversi dell’isola.
Dalla fine del Settecento fino al 1912, l’isola di Malaga accolse una comunità di pescatori composta da afroamericani, bianchi poveri e altre etnie che avevano trovato rifugio su quel lembo di terra nel Golfo del Maine.
Nel 1912, il governatore dello Stato decretò “lo sgombero dei quarantasette residenti e la traslazione delle salme dei loro defunti”.
Un atto che sancì con efferata violenza la fine di quella comunità.
In Un altro Eden, con la grazia della sua impeccabile scrittura, Paul Harding ritorna su quella vicenda crudele per narrare una magnifica “storia fatta di poesia e luce solare”, come ha scritto il New York Times
Siamo nei primi anni del ventesimo secolo negli Stati Uniti quando i pregiudizi razziali venivano spesso scambiati per verità scientifiche.
I medici misurano ogni centimetro del corpo degli isolani con calibri e righelli di metallo, come se fossero semplici campioni di laboratorio.
A un certo punto, qualcuno del gruppo mostra a una bambina nera le fotografie di un vagone ferroviario, un telefono e l’allora presidente americano William Taft, e le chiede di identificare le immagini.
Gli abitanti di Apple Island conducono un’esistenza semplice e povera nel loro piccolo Eden, in cui ciascuno è libero di prendersi cura delle proprie ore e dei propri giorni.
Ignorano, dunque, che qualcun altro possa decidere del loro tempo e decretarne addirittura la fine.
Ignorano anche i tormenti del missionario bianco che ogni mattina rema fino all’isola per predicare e insegnare tutto lo scibile ai bambini.
Fermamente convinto che ogni uomo è suo fratello, Matthew Diamond non può, tuttavia, fare a meno di provare un istintivo e viscerale senso di repulsione ogni volta che si trova, come afferma con candore in una lettera, “alla presenza di un negro”.
Angustiato dal senso di colpa, si rivela non soltanto impotente dinanzi alla distruzione della piccola comunità di Apple Island, decretata dai deliri eugenetici e razzisti dell’epoca, ma anche incapace di scorgere in quel lembo di terra un’antica verità della sua fede: che l’Eden è dei poveri e dei semplici.
Il romanzo di Paul Harding è pieno di momenti attentamente calibrati.
Scegliete un estratto dalle 224 pagine di Un altro Eden e scoprirete che ogni frase contiene moltitudini e funziona bene da sola, ed anche i capitoli, i paragrafi, sono stati “cuciti” insieme in un insieme meraviglioso.
La storia si apre come detto su Apple Island, chiamata così a causa degli alberi una volta piantati lì dai primi coloni: uno schiavo fuggitivo, Benjamin Honey, e sua moglie irlandese, Patience.
Ma questa storia, sebbene ispirata da eventi reali, non cattura del tutto l’attenzione di Harding che non sembra fin dalle prime pagine alla ricerca di credibilità storica, ma di qualcosa di più poetico, più frammentario.
C’è Esther Honey, la matriarca sofferente, che trascorre le sue giornate fumando artemisia sulla sua sedia a dondolo e reprimendo pensieri morbosi sul suo mostruoso defunto padre.
Zachary Hand è un falegname che vive nel tronco di una quercia cava.
Ha trascorso decenni a scolpire scene della Bibbia all’interno dell’albero, una volta aspirava a costruire una cattedrale,
Theophilus e Candace Lark vivono in una baracca vicino ai Mieli.
I loro figli sono così deboli e sensibili alla luce solare che possono avventurarsi fuori soltanto al buio.
Harding non esprime giudizi morali.
La devastazione di un uragano è descritta, a un certo punto, come un messaggio, un presagio.
Un romanzo che cattura più volte il lettore per la profondità delle frasi di Harding, la loro luce angelica.
La prosa di Harding, mi ripeto, è davvero affascinante.
Gli abitanti di Apple Island sembrano avere poca o nessuna consapevolezza della politica razziale del loro tempo.
Più leggevo le pagine più mi ritrovavo a chiedermi dove fossero gli avvertimenti che sono sicuro che i neri di quel tempo debbono aver avuto.
Perché i protagonisti del racconto rimangono immobili mentre le loro vite si sbriciolano sotto lo sguardo dell’uomo bianco?
Perché sembra che gli abitanti dell’isola vivano in un mondo in cui le cose non accadono a loro?
Forse davvero vivere nell’Eden richiede un po’ di beata ignoranza.
Come Adamo ed Eva, beatamente ignari della loro nudità davanti al frutto, questi abitanti di Apple Island rimangono ad immaginare il loro paradiso.
Non senza complicazioni, non senza dolore, Un altro Eden è in definitiva un testamento d’amore: amore per i parenti, amore per la natura, amore per l’arte, amore per se stessi, amore per la casa.
Paul Harding ha scritto un romanzo fatto di poesia e luce, una storia violenta fatta però di teneri ricordi.
I protagonisti della storia pulsano di vitalità, onirici ma tangibili, così reali da farti piangere.
Un libro breve che porta il peso della storia.